di
Luigi Metropoli
Ricordo un’intervista, di qualche tempo fa, una perentoria affermazione di Robert Duvall: “Gli Inglesi hanno Shakespeare, noi abbiamo il western”. Più che la desacralizzazione del più grande mito letterario anglosassone Duvall sottolineava l’importanza che il western riveste per il suo popolo, individuando in esso quanto di più tipico gli USA abbiano prodotto in ambito creativo: incarnazione del mito della fondazione, della storia di un paese, con la sintesi di più epoche sovrapposte, come in un’acronia da tempi preistorici in cui leggenda e realtà si fondono (e si fondano). Sintomatico che la più grande potenza mondiale abbia fatto del racconto visivo, più di quello orale, lo strumento per celebrare al meglio la “nascita di una nazione”: si tratta, piuttosto, di una “forma” (prima che di un genere) tipicamente americana (per cui si potrebbe parlare di doppia fondazione). Quando si parla di cinema (e in particolare di western), negli Sta
Franz Krauspenhaar
Affonda nella prosa, affondiamoci tutti. Nella prosa una specie di riscatto incerto. Non calcolabile. Nella prosa una sorta di liberazione, un viaggio intorno al mondo di noi stessi. Un estremo tentativo. Col coraggio di chi non ha in fondo nulla da perdere. Perché nessuno ha nulla da perdere, in definitiva, tirando le somme. Affonda nella prosa, ora che, dopo essere affondato nella terra, non hai più spazio dove affondare ancora. L’anno scorso ti hanno tolto dal posto dove t’avevano messo, al campo. T’hanno trasferito nell’ossario. C’è andato Ernesto, io non ce la facevo ad esserci. Lui può, lui ce la fa, lui è quello che davvero ha preso in mano il tuo testimone, non io. Ha assistito alle tue spoglie, le ha viste. Ha visto quel poco che ne è rimasto. Affonda nella prosa, ora che non c’è più nemmeno la terra, ora che hai solo il tuo inserto di cielo. Là spazi. Non si sa come. Qua sei in una piccola cella, striminzito resto di una vita. E al