di
Luigi Metropoli
Ricordo un’intervista, di qualche tempo fa, una perentoria affermazione di Robert Duvall: “Gli Inglesi hanno Shakespeare, noi abbiamo il western”. Più che la desacralizzazione del più grande mito letterario anglosassone Duvall sottolineava l’importanza che il western riveste per il suo popolo, individuando in esso quanto di più tipico gli USA abbiano prodotto in ambito creativo: incarnazione del mito della fondazione, della storia di un paese, con la sintesi di più epoche sovrapposte, come in un’acronia da tempi preistorici in cui leggenda e realtà si fondono (e si fondano). Sintomatico che la più grande potenza mondiale abbia fatto del racconto visivo, più di quello orale, lo strumento per celebrare al meglio la “nascita di una nazione”: si tratta, piuttosto, di una “forma” (prima che di un genere) tipicamente americana (per cui si potrebbe parlare di doppia fondazione). Quando si parla di cinema (e in particolare di western), negli States, la percezione è completamente diversa dalla nostra, affondando le radici in un processo sociale se non addirittura antropologico: è cinema e molto di più (non esiste verosimilmente nei paesi europei un genere cinematografico che assolva le stesse funzioni del “mito della frontiera”: per rintracciare simili tratti fondativi, per noi europei, occorre retrodatare vertiginosamente l’origine, ma soprattutto cambiare forma d’arte e ritornare all’oralità della letteratura).