di Daniele Giglioli L’identificazione con la vittima è diventato il principale generatore di identità nella coscienza contemporanea, l’unico dispositivo discorsivo in grado di dar voce non tanto a un bisogno di avere (diritti, sicurezza, giustizia), quanto piuttosto a un desiderio di essere. Solo nella forma cava della vittima troviamo oggi un’immagine verosimile, anche se rovesciata, della pienezza di essere a cui aspiriamo: l’immaginario della vittima ha finito per assumere il carattere di quella che Furio Jesi chiamava una «macchina mitologica», una macchina che a partire dal centro vuoto di una mancanza genera incessantemente una mitologia, un corpus di figure capace di soddisfare un bisogno che proprio da quel vuoto ha tratto origine. Da quella macchina mitologica non scaturiscono solo i racconti delle minoranze ma anche e forse soprattutto la legittimazione di quella che Arjun Appadurai, studiando i conflitti nazionalistici nell’India degli anni Novanta, ha denominato efficacemente la «violenza della maggioranza».